La diffusione crescente del lavoro ibrido e la mobilità sempre più frequente hanno fatto emergere situazioni non sempre coperte dalla normativa classica. Tra queste, la “trasferta mista”: quando un dipendente alterna abitudini lavorative tra sede, smart working e trasferte da clienti o coworking, creando complessità nella gestione dei rimborsi.
Ma cosa significa esattamente “trasferta mista”? Come si inquadra dal punto di vista normativo e, soprattutto, quali costi è possibile rimborsare senza incorrere in errori fiscali?
COS’È LA “TRASFERTA MISTA”
Con il termine “trasferta mista” si indica una situazione in cui il lavoratore:
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Suddivide la sua attività tra la sede aziendale, il lavoro da remoto e trasferte verso clienti o sedi distaccate;
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Lavora spesso lontano dalla base contrattuale;
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Effettua spostamenti abituali, ma non cambia stabilmente sede.
IL QUADRO NORMATIVO
In base all’art. 51 del TUIR, le indennità e i rimborsi per missioni temporanee fuori sede rimangono fuori dal reddito imponibile, entro certi limiti.
Non rientrano nella categoria “trasferta”:
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Il trasferimento definitivo in altra sede;
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L’assegnazione prolungata in altra sede per consuetudine, anziché per necessità temporanea.
La “trasferta mista” si colloca in un’area intermedia: non è occasionale né stabile. Per godere dei benefici fiscali occorre che sia formalmente documentata e non diventi prassi consolidata. In mancanza di questa attenzione, i rimborsi rischiano di essere considerati reddito imponibile, con multe in caso di controlli.
I RISCHI DI UN’APPROCCIO INADEGUATO
Se la gestione della trasferta mista è poco precisa, possono verificarsi:
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Errori nella classificazione fiscale, con eventuale recupero imposte e multe;
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Malintesi o tensioni con i dipendenti, se le regole non sono chiare o non applicate uniformemente;
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Assenza di tracciabilità su luoghi, orari e motivazioni degli spostamenti.
Una gestione carente può violare anche gli obblighi di tracciabilità fiscale delle spese di trasferta.
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